Sabato, 15 Marzo 2025 Vasto

“Nessuno dovrebbe morire per lavorare”

Sulla tragica fine di Gianluigi Scaccia il commento di Auro Zelli

Dolore e sconcerto a Pollutri e Silvi per la tragica morte di Gianluigi Scaccia, 27 anni, avvenuta ieri sull'autostrada A/14 Adriatica. Il giovane si trovava alla guida di un furgone della Società Bartolini. Il mezzo si è schiantato contro un tir che procedeva nella stessa direzione di marcia. Un incidente avvenuto in uno di quei tratti dell'A/14 dove i lavori in corso sembrano interminabili.

Gianluigi Scaccia era nato a Vasto. La sua famiglia, quella del padre, risiede a Pollutri. Gianluigi era spostato e padre di due bambini e risiedeva Silvi. Svolgeva il suo lavoro con passione e dedizione. Un ragazzo benvoluto da tutti. Ieri stava viaggiando a bordo di quel furgone rosso per la consegna delle merci così come faceva ogni giorno. Chi lo conosceva ed i suoi colleghi di lavoro sono sconvolti.

Su questa ennesima tragedia, su questa nuova assurda morte avvenuta sul posto di lavoro, Auro Zelli ha scritto questo struggente commento.:

“Il sipario si alza, ancora una volta, sulla stessa tragedia: un giovane uomo esce di casa all’alba, scosta la tenda della sua esistenza ordinaria e si avvia verso il posto di lavoro. Non sa, non può sapere, che quella sarà la sua ultima alba. La sera, al posto suo, tornerà solo la notizia della sua morte. L’ennesima morte bianca, il solito epitaffio di una nazione che ha smesso di interrogarsi sul valore della vita umana quando essa è spesa nel lavoro.

GIanluigi Scaccia, 27 anni, corriere, è rimasto schiacciato tra le lamiere del suo camioncino sulla A14. L’Italia conta un altro caduto nella sua guerra silenziosa. La sua morte non sarà un caso politico, non sarà una tragedia nazionale, non sarà oggetto di indignazione collettiva. Nessuno scenderà in piazza, nessuna legge cambierà, nessun talk show farà a gara per contendersi il dolore della sua famiglia. Il suo sacrificio si dissolverà come nebbia, soffocato dalla colpevole assuefazione a un fenomeno che continua a mietere vittime senza che la coscienza pubblica si scuota.

C’è una dissonanza stridente nel modo in cui il sistema amplifica certe narrazioni e ne soffoca altre. Alcuni drammi si trasformano in simboli, in bandiere da sventolare, in occasioni per dibattiti interminabili e per indignazioni costruite ad arte. Altri, invece, si consumano nel silenzio, con la velocità di un aggiornamento di agenzia, già destinato all’oblio prima ancora che il corpo venga composto nella bara. La morte sul lavoro, in Italia, non fa rumore. È una tragedia sorda, priva della carica emotiva necessaria per scuotere il palcoscenico mediatico.

Eppure, cosa vi è di più aberrante dell’idea che un uomo esca di casa la mattina per guadagnarsi il pane e venga restituito alla sua famiglia in un sacco funebre? Che cosa può essere più insopportabile della normalizzazione di questa carneficina quotidiana? La verità è che le morti bianche non scuotono le coscienze perché sono parte di un meccanismo che nessuno vuole davvero fermare. Perché al di là delle dichiarazioni di rito e dei minuti di silenzio, il sottotesto non pronunciato è sempre lo stesso: il lavoro è un privilegio, e chi lavora deve accettarne il rischio, anche quello di morire.
L’Italia è un paese in cui la produttività si misura ancora in ore di lavoro, non in qualità della vita. Dove il riposo è considerato un lusso, la fatica una medaglia al valore e la sicurezza un costo evitabile. Dove lo sfruttamento è mascherato da necessità economica e la precarietà è un dogma inconfessabile. Il lavoratore è un ingranaggio sostituibile e quando si spezza, ce n’è sempre un altro pronto a prenderne il posto. Questo è il sistema che abbiamo costruito, con la connivenza colpevole di chi dovrebbe garantire tutele e di chi preferisce girarsi dall’altra parte.
Si muore per turni massacranti, per standard di sicurezza inesistenti, per una corsa senza freni al profitto che stritola la vita umana come un dettaglio trascurabile. Si muore perché il sistema è cieco e chi dovrebbe vegliare su di noi è assente. Perché le leggi ci sono, ma i controlli latitano. Perché la sicurezza sul lavoro viene vista come un intralcio alla competitività, una spesa superflua, un lusso per chi può permetterselo. Perché la cultura del profitto ha corroso la dignità dell’essere umano, riducendolo a mera risorsa impiegabile e sacrificabile.
Viviamo in una società che ha trasformato il lavoro da mezzo in fine, da diritto in condanna. Non si lavora più per vivere, si vive per lavorare. L’uomo moderno non è più libero: è incatenato a orari impossibili, al perenne ricatto della precarietà, al senso di colpa per ogni giorno di ferie, alla paura di chiedere un diritto per non risultare “scomodo”. È schiavo di un sistema che gli concede solo la sopravvivenza, ma non la libertà.
Eppure, sembra che tutto questo sia ormai accettato come una legge di natura, come se il lavoratore dovesse vivere e morire senza chiedere altro. Sembra che nessuno voglia davvero fermarsi a riflettere su quanto questa corsa sfrenata ci stia portando alla rovina. Sembra che il sacrificio umano sull’altare del lavoro sia diventato una componente ineluttabile del nostro vivere collettivo.

Ma possiamo davvero accettare di continuare così? Possiamo rassegnarci all’idea che il lavoro sia una roulette russa in cui ogni giorno qualcuno cade, senza che nulla cambi? Possiamo accettare che l’esistenza dell’uomo sia ridotta a un logorio incessante, fino all’estremo epilogo tra le lamiere di un camioncino, tra le macerie di un cantiere, tra le fauci di un macchinario inarrestabile?

Fra due giorni nessuno parlerà più di Gianluigi Scaccia. Il suo nome verrà inghiottito dal vortice dell’informazione che fagocita tutto e non restituisce nulla. La sua morte sarà solo un numero, una statistica che nessuno leggerà fino al prossimo incidente mortale, fino alla prossima vittima sacrificabile. Il dolore della sua famiglia resterà privato, confinato nella sfera dell’intimità, mentre il mondo andrà avanti come se nulla fosse successo.

Ma non dovremmo accettarlo. Non possiamo permetterci di dimenticare. Perché dimenticare significa essere complici. Significa lasciare che il sistema continui a macinare vite senza pagare mai il conto. Significa legittimare la morte come un effetto collaterale del lavoro, come un prezzo inevitabile per mantenere in piedi questa macchina infernale.

La verità è che nessuno dovrebbe morire per lavorare. Nessuno dovrebbe temere che una giornata in fabbrica, in cantiere, in magazzino o su un camion possa essere l’ultima della sua vita. Nessuna società che si definisca civile può accettare questo tributo di sangue come il pedaggio necessario per il progresso.

Se ancora ci resta un briciolo di dignità collettiva, dobbiamo indignarci. Davvero. E smettere di dimenticare.
Io non dimentico…”